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Oggi c’è un problema reale: “la famiglia del malato di Alzheimer può ritrovarsi in solitudine a gestire il decorso della malattia”, problema che va affrontato e risolto con omogeneità a livello nazionale e non lasciato alla sola autonomia territoriale. Bisogna chiedersi: “Perché un malato di Alzheimer dell’Abruzzo si ritrova a vivere la sua condizione con minore dignità rispetto ad un malato di Alzheimer dell’Emilia Romagna”. Perché così è oggi, così è stato in passato, e così sarà ancora per non si sa ancora quanto altro tempo finché non ci saranno interventi istituzionali efficaci.

Il blocco comunicativo in atto, fa sì che “la condizione” in oggetto non abbia la giusta considerazione, con conseguente aggravamento della situazione esistente.

Va portata l’attenzione a tutto ciò che per ora si può fare, ossia: “Una reale assistenza al malato di Alzheimer e sostegno ai familiari coinvolti”, piuttosto che continuare ad inviare “soltanto messaggi di speranza e disperati” sulla cura miracolosa, sulla diatriba nei confronti delle cellule staminali, sulla difficoltà della ricerca in generale.

La gravità di questa epidemia consiste nel fatto che va a colpire soprattutto quella fascia di popolazione, già di per se fragile, quella anziana. L’alzheimer pur essendo una patologia che fa il suo esordio prevalentemente in età presenile, tra i 30 ed i 60 anni di età, che per molto tempo non dà adito a preoccupazioni, ma quando ci si rende conto del suo “insorgere”, può essere troppo tardi, perché la persona ha un’età tra i 60 ed i 70 anni, in percentuali maggiori le donne, dove spesso l’unico essere umano che può prestargli aiuto: il coniuge, è in genere più anziano.

Statisticamente vediamo che le famiglie coinvolte dall’avvento di questa nuova condizione della salute si trovano a vivere un’altrettanto nuova condizione sociale, troppo spesso in peggio, perché la maggioranza di esse può trovarsi già in una condizione di difficoltà, con nuclei familiari composti da: due persone anziane, dove il soggetto sano è comunque una persona di età avanzata e possono non avere nessuno che li aiuti; due persone anziane con figli che vivono distanti; con il coniuge deceduto e la persona che sviluppa la malattia vive da sola, senza nessuno familiare o con familiari distanti.

 

Sono le terapie non farmacologiche quelle più valide, che riescono ad assicurare una maggiore qualità della vita del paziente e del familiare che l'accudisce: Validation Terapy; Musico-terapia, R.O.T.; Terapia occupazionale; Terapia conversazionale; ecc...  L’applicazione di queste tecniche avviene soprattutto nei centri Diurni Alzheimer, ed anche nelle RSA con modulo Alzheimer, ma soprattutto, per la fase iniziale della malattia, attraverso l'assistenza domiciliare con personale qualificato. È questo il motivo principale per cui i familiari chiedono un maggiore intervento dello stato, perché mancano le strutture specialistiche che possono aiutare il Caregiver nella complessa missione di assistenza, che avviene il più della volte nell’isolamento più totale.

 

In Italia, sappiamo tutti del panorama disomogeneo e nettamente “insufficiente” rispetto all’assistenza del paziente con demenza, della ricerca scientifica “mortificata”, si potrebbe continuare, ma proviamo a sottolineare un aspetto della risposta italiana all’emergenza Alzheimer. Il progetto Cronos, messo in piedi tra il 1999 ed il 2000 dal Ministero della Salute, avviava un meccanismo interessante, che se fosse stato sviluppato dopo il marzo 2003 (conclusioni dello studio osservazionale, a partire anche da esse. pagg. 187-188) avrebbe potuto realizzare efficacemente una capillare rete di assistenza al paziente con demenza, attraverso il conseguente sviluppo dei centri UVA (sulla carta 500, ma in realtà sono meno, come denunciano gli stessi responsabili del Centro nazionale di epidemiologia dell' I.S.S.), dai quali si poteva diramare la rete assistenziale. Va detto che prima del progetto Cronos, che ha istituito i centri UVA, in Italia le strutture specialistiche erano solo 50. Il problema è che non è avvenuta, quella che doveva essere la naturale evoluzione dei centri stessi e delle relative reti dei servizi dislocate sui diversi territori che ad essi spesso facevano capo, come pure non si è evoluto il ruolo dei Medici di Medicina Generale, sempre rispetto ad Alzheimer e Demenza Senile, anch’esso fondamentale per la realizzazione della rete dei servizi al paziente con demenza, ma necessario soprattutto per la diagnosi precoce, altro pilastro finalizzato al rispetto del diritto alla cura di chi svilupperà la patologia in questione. 

 

Se un giorno riusciremo ad avere una decente dimensione assistenziale, riguardo Alzheimer e Demenza senile, gran parte del merito sarà di quei familiari, che hanno testimoniato la loro realtà di Caregiver, uscendo allo scoperto, superando quella coltre offuscante di “indifferenza e diffidenza” che ci avvolge tutti quando si parla di questioni che coinvolgono gran parte della società, difficili da trattare: perché “bisogna investire risorse e non si fa”!!! Perché è anche un fatto culturale, quello di far finta che “la malattia” non esista!!!  Perché tanto sono vecchi la loro vita l’hanno fatta!!! Ecco a proposito di questa affermazione, che molte volte mi sono sentito dire, rispetto alla sorte che è toccata a mia madre (l’Alzheimer gli venne diagnosticato nell’agosto 2003), l’Alzheimer non tocca solo i “vecchi”. Nel 2005 in Italia sono stati individuati 31.876 casi, nella fascia di età 30 – 59 anni (dal “Rapporto Demenza in Europa 2006” di Alzheimer Europe).

Se qualcosa cambierà in questo paese, grande sarà stato il merito delle associazioni di familiari che hanno testimoniato questa realtà: organizzando convegni, gruppi di auto aiuto; stimolando la realizzazione di strutture adeguate e l’assistenza domiciliare, ecc…

È veramente straordinaria, in Italia, la proliferazione delle realtà associative riguardo l’Alzheimer, sulla base dei dati forniti dalle tre federazioni (Alzheimer Italia; AIMA; Alzheimer Uniti) risultano 85 associazioni Alzheimer. Sappiamo anche dell’esistenza di altre associazioni di familiari, che non sono federate.

 

La malattia del proprio caro si vive con estrema difficoltà, perché l’Alzheimer è molto piu’ di una malattia, di fatto, è la trasformazione di “una personalità” che sconvolge l’equilibrio familiare a cui si era abituati.

La persona con l’Alzheimer, ha bisogno di assistenza 24 su 24 .
La cosa fondamentale è quella di adottare un atteggiamento assecondante e validante, ovvero: non mettersi a discutere sulle cose “assurde” che un malato di Alzheimer può dire, anzi rassicurarlo il piu’ possibile, assecondarlo senza mai contraddirlo. Perché si ha davanti una persona che non ha piu’ i riferimenti che abbiamo noi e che non è piu’ in grado di comprendere i nostri schemi comportamentali. Allora per forza di cose saremo noi che dovremo adeguarci a lui e non lui a noi, anche rassicurandolo il piu’ possibile.


Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito ad una trasformazione del tipo di cura per questi pazienti. Anche se ancora si continuano a dare i farmaci (quelli dispensati dai Centri U.V.A.), si è riscontrato che se il paziente riceve un’adeguata stimolazione cognitiva e validativa (Terapia occupazionale; R.O.T. ; Terapia della Validazione. solo per dirne alcune), non solo ci sarà un contenimento dell’aggressività (pur senza assumere i farmaci) ma avverrà anche un rallentamento del declino cognitivo.

È proprio sulle terapie non farmacologiche che molti dei ricercatori internazionali stanno lavorando. Al momento quello che si può fare è “stimolare cognitivamente” il paziente (ovviamente nel modo adeguato, meglio se con professionisti).
Questo si può fare anche nella propria abitazione, non lasciandono in un angoletto della casa, ma parlandogli, facendogli fare tutto quello che può ancora fare, in una parola va stimolato (sempre nel modo opportuno), piu’ che “frenato”.

L’assistenza domiciliare i C.D.A. e le R.S.A. con modulo Alzheimer sono dei presidi Socio Sanitari – Socio Assistenziali fondamentali per la cura di questi pazienti e importantissimi per l’aiuto alle famiglie che troppo spesso vengono abbandonate in un compito così delicato, come quello dell’assistenza al paziente con demenza, che non può essere demandato completamente al solo familiare, il quale troppo spesso può ammalarsi, può perdere il lavoro, e va incontro a problemi economici. Un compito, quello dell’assistenza al paziente con demenza, che ha bisogno soprattutto di competenze, che un familiare di punto in bianco non ha, e quando le ha acquisite, in genere si è arrivati alla fine del percorso assistenziale.
Di fronte a questa malattia, fin da subito, ai familiari di questi pazienti si presenta una grande difficoltà: quella dell’assistenza.
Bisogna chiedere subito al centro UVA di riferimento se esistono centri diurni e realtà di assistenza domiciliare, ma anche gruppi di auto aiuto, indispensabili per il caregiver principale, che generalmente è il familiare piu’ stretto.

Carsoli (Aq), 12 maggio 2013